Milano: oltre l’emergenza per un nuovo modello di accoglienza

Milano: oltre l’emergenza per un nuovo modello di accoglienza

No al decreto Minniti-Orlando. Perché chiude le porte agli appelli di chi si è visto negare una prima volta la richiesta di protezione o di asilo, lasciando così campo libero all’illegalità e alla clandestinità. E’ una delle richieste sollevate durante l’incontro “Migrazioni umanitarie e sistemi di accoglienza: oltre l’emergenza”.

La serata è stata organizzata da Ciessevi – Università del Volontariato a conclusione del corso sull’emergenza-accoglienza dei profughi.

Mercoledì 26 aprile, a Milano, si sono radunati attorno a un tavolo le principali organizzazioni che operano nella metropoli meneghina e non solo. Il racconto delle loro esperienze, dopo gli ultimi cambiamenti legislativi, ha evidenziato luci ed ombre del sistema di accoglienza in Italia.

Il sistema
Le persone che arrivano alle frontiere, in Italia principalmente al Sud, sono smistate dalle prefetture – in base alla percentuale della popolazione residente nelle province – ai Cas (Centri di accoglienza straordinaria). Dopo questo primo periodo, nel quale si perfeziona la domanda di asilo, si deve attendere l’udienza in commissione e l’esito della valutazione che, allo stato attuale, dura anche più di un anno. Chi ottiene la possibilità di rimanere in Italia può, talvolta, accedere allo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) che offre servizi di accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico.

Il modello ambrosiano dell’accoglienza
La fotografia dell’accoglienza a Milano, oltre l’emergenza, la racconta Manuela Brienza del Comune di Milano, settore Politiche sociali: «Siamo passati da un’accoglienza di tipo umanitario, nel 2013, con il transito dei profughi siriani, caratterizzato da grandi numeri e un turn over elevato – che ci ha permesso di aiutare 125mila persone – ad oggi. Dopo la chiusura delle frontiere e la costituzione degli hot spot è iniziato un nuovo meccanismo di ricollocazione dei circa 180 mila richiedenti asilo che ogni anno sbarcano dal Mediterraneo. In attesa di ripensare a un nuovo modello di asilo comune europeo, nei territori siamo in continuo affanno perché, nonostante tutti gli sforzi di integrazione, continuiamo a ricevere sempre più persone. Il comune di Milano ha 422 posti Sprar gestiti in convenzione con altri enti e parliamo di persone che hanno ottenuto la protezione internazionale. In più abbiamo oltre mille persone ospitate nei Cas comunali. Per rispondere ai grandi numeri abbiamo inoltre realizzato un Hub, quello di via Sammartini. L’esigenza nasce dalla necessità di effettuare una prima registrazione e il successivo smistamento di persone che scappano da altri centri per andare all’estero, ma si trovano bloccati qui in città perché le frontiere sono chiuse. A tutto questo poi dobbiamo aggiungere i numeri dei Cas prefettizi».
Per lanciare un appello e fare luce su tutto questo sistema il 20 maggio è prevista la manifestazione “20 maggio senza muri” lanciata dal Comune di Milano replicando l’esempio di Barcellona. La necessità è proprio quella di rivedere il sistema di accoglienza con un metodo che accomuna e non divide ma che coinvolga tutte le comunità e le istituzioni in modo trasparente.

«Il tema dell’accoglienza – aggiunge Ivan Nissoli, Presidente Ciessevi – non è scoppiato solo in questi ultimi tempi. Sono ormai trent’anni che a Milano operano associazioni non profit che si sono occupate del problema. Seppur in modi diversi, sono diventate dei veri e propri modelli di operatività. Il volontariato ha questa capacità di leggere i bisogni e trovare delle risposte a partire dalle risorse presenti sul territorio. Per Ciessevi, questo incontro è l’inizio di un cammino che vorrebbe aprire una riflessione sul tema più ampio della cultura dell’accoglienza».

È da cinque anni che Università del volontariato di Ciessevi organizza corsi per formare i volontari delle associazioni che operano in favore dei migranti, grazie anche alla collaborazione dell’Università Statale di Milano. In particolare, “Progettare un corso di italiano per stranieri” – corso base e avanzato – e “Migrazioni umanitarie e sistemi di accoglienza: oltre l’emergenza” più legato al tema dei rifugiati e richiedenti asilo. Lo scopo è di fornire agli operatori gli strumenti per realizzare corsi di italiano per stranieri e di capire che cosa si intende per migrazione, asilo e accoglienza con tutte le declinazioni normative e di legge.

Quale accoglienza
Ma quando si parla di sistemi di accoglienza che cosa si intende? «Cerchiamo di offrire un servizio che restituisca una dignità ai profughi, anche se mi rendo conto che è un obiettivo difficile», spiega Monica Simeone di Croce Rossa Italiana, Comitato di Milano. «In città gestiamo due centri di accoglienza. Luoghi che, all’inizio, erano nati per essere dei centri di transito, ma che di fatto per tanti si stanno rivelando una situazione prolungata nel tempo. Sono luoghi dove il senso della persona si perde, perché in uno spazio limitato sono costrette a convivere parecchie persone provenienti da culture completamente diverse e dove anche l’approccio di chi opera è spesso complicato». Di conseguenza, continua, «modulare in questi contesti degli interventi di assistenza e di integrazione non vi nascondo che è complicato. Chi lavora, infatti, deve fare i conti con una serie di ostacoli che, in questo momento, tagliano le gambe all’integrazione. Pensiamo, per esempio, ai tempi per l’ottenimento del permesso di soggiorno, alla richiesta di avere un codice fiscale, o la carta d’identità. Ostacoli che rallentano tutti i nostri sforzi, come l’iscrizione a un corso di formazione piuttosto che l’accesso ad una scuola. Infine, quando un immigrato è arrivato a ottenere la protezione sussidiaria o umanitaria, o l’asilo, noi gestori dei centri siamo obbligati a farli uscire. Perché, se arriva il collocamento nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, le persone vanno allontanate».
Inoltre, ad aggiungere benzina sul fuoco, «c’è tutta la disinformazione legata ad una comunicazione emozionale del fenomeno che genera, come abbiamo visto in questi giorni, continue polemiche tra gli stessi operatori, tra la stampa e chi opera, tra rappresentanti delle istituzioni e chi va a salvare la gente in mare. Secondo me, prima di esprimersi è importante conoscere e soprattutto vedere le cose. Perché su su come viene gestita l’accoglienza c’è molta propaganda e poca informazione vera».

Le esperienze
Un contributo importante all’emergenza, da sempre a Milano, arriva dalla Fondazione Fratelli di San Francesco: «In questo momento – spiega Silvia Furiosi – abbiamo circa 800 richiedenti protezione nelle diverse case di accoglienza che gestiamo a Milano. Provengono principalmente dal circuito Nord Africano, dalla Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Mali e Bangladesh. L’accoglienza è frutto di una convenzione con la Prefettura di Milano e sono stati avviati una serie di programmi personalizzati volti al raggiungimento di una piena autonomia». A marzo abbiamo aperte le porte ai cittadini del centro di accoglienza situato nell’ ex caserma Montello: «In quell’occasione – continua Furiosi – abbiamo inaugurato una mostra fotografica dal titolo “Cuori senza frontiere” per raccontare l’arricchimento che porta il rapporto tra colui che dona e colui che riceve».
Si tratta di novanta scatti in bianco e nero per testimoniare i luoghi di incontro, le iniziative, i volti di tanti volontari ed operatori nel mondo non profit di 14 associazioni presenti sul territorio di Milano e provincia (Casa della Carità, City Angels, Emergency, Fondazione Fratelli San Francesco d’Assisi, Fondazione Near, Opera Cardinal Ferrati, etc.).

Un’altra esperienza arriva dalla Casa della Carità, il lascito del cardinale Martini a Milano, fondato sull’accoglienza attiva e non assistenzialistica: «Con ogni ospite – racconta Peppe Monetti – costruiamo insieme, condividendolo, un percorso finalizzato all’autonomia lavorativa e abitativa. L’obiettivo è far uscire la persona dalla situazione di disagio nella quale si trova. L’ospitalità offerta è temporanea e può durare poche settimane o diversi mesi, dipende dal singolo caso. In genere, si conclude quando la persona ha ottenuto una fonte di reddito per permettersi un’abitazione. Inoltre il rapporto con l’ospite è caratterizzato dall’instaurarsi di una relazione diretta, paritaria, schietta e di rispetto reciproco. Noi abbiamo pochi posti ma destinati a persone con una vulnerabilità psichica o fisica, quindi molto fragili che necessitano di un alto livello di specializzazione».

Un passo in avanti nel cammino dell’accoglienza arriva dalle cooperative del circuito di Caritas Ambrosiana «Abbiamo redatto una Carta della buona accoglienza che prova a mettere in fila quelle che sono le buone prassi per operare – osserva Paolo Pagani della cooperativa Farsi Prossimo –. La prima attenzione è quella di verificare le condizioni di salute delle persone e l’eventuale presa in carico dei problemi sanitari. La seconda, riguarda il fascicolo del richiedente protezione: l’iter del primo permesso di soggiorno, la domanda di asilo, eccetera. Al terzo posto c’è l’insegnamento della lingua italiana e non solo, perché a Milano il 15% dei rifugiati sono analfabeti che parlano solo il loro dialetto locale. Poi c’è l’avviamento professionale: mentre alcuni hanno già una professione, altri devono essere avviati con tirocini, corsi e altro. Infine, l’ultimo step, lo chiamiamo il “dopo di noi” ed è la preparazione all’autonomia una volta usciti dal sistema di protezione che avviene con la collaborazione delle organizzazioni di terzo livello, che hanno un’accoglienza basata già sull’autonomia della persona, come Casa della Carità. Tutte queste attenzioni devono essere condite da un elemento fondamentale che è la relazione, in cui l’azione del volontariato gioca un ruolo chiave».

Per Sabrina Liberalato di Progetto Arca, una realtà che gestisce numerosi centri tra Milano, Lecco e Varese, anche insieme ad altri enti come “Save The Children”, un punto fondamentale è «umanizzare questo lavoro». Chiarisce: «Gestendo tanti centri abbiamo un numero elevato di utenti, circa 1.400. Ed a ciascuno è importante dare la giusta dignità e umanità. Persone che hanno vissuto un trauma con tempi di sedimentazione ed elaborazione molto lunghi e che spesso non sono facili. Penso soprattutto alle tante donne in attesa di un bambino. Tutto quello che noi possiamo offrire loro è di stimolarli nel tornare a vedersi come persone. Perché solo con un passaggio “umano” si crea la futura integrazione».

Ma è “oltre l’emergenza” e sul decreto Minniti-Orlando che emergono le maggiori criticità «Assistiamo a un numero elevatissimo di dinieghi ad entrare nel sistema di protezione, cioè quando il richiedente protezione diventa clandestino – afferma Susy Ioveno di SOS Emergenza rifugiati –. In questo momento siamo al 60-70% di risposte negative da parte del sistema nonostante siano in corso gli ultimi appelli previsti. E poi? Il problema scoppierà quando dovremo gestire tutte queste persone che, rifiutate dal sistema, diventeranno clandestini. E, siccome, noi non potremo più aiutarli che fine faranno? Dove andranno visto che i rimpatri sono pochissimi sia per le scarse risorse economiche sia perché non ci sono accordi con i Paesi per il rimpatrio? Temo guardano al futuro, il rischio è che tutto il lavoro che abbiamo fatto in questi ultimi anni sia vanificato da queste decisioni. Ci troveremo nella condizione ingrata di non poter aiutare queste persone. Ci aspettavamo un passo in avanti da parte delle istituzioni, invece manca la visione del domani. Non c’è coscienza di quello che potrà accadere, forse solo con un movimento di opinione potremo spingere una riflessione e una presa di coscienza di quanto sta succedendo».

Il ruolo del volontariato
Qual è allora il ruolo che il volontariato può svolgere in questo momento? Paola Bonizzoni, sociologa dell’Università Statale di Milano e docente dei corsi sull’immigrazione dell’Università del Volontariato, spiega che «c’è bisogno di volontari che operino purché formati con linee guida precise. Sono molte le attività in cui spendersi: corsi di alfabetizzazione, sostegno ai minori, animatori sportivi e per momenti aggregativi, oppure con competenze linguistiche per essere mediatori. Ma c’è bisogno anche tante figure professionali come i medici. Dopotutto i volontari sono il “ponte” della nostra società accogliente».

Sono diverse le esperienze anche di piccole associazioni che hanno trovato il loro spazio di azione in questo contesto. Un esempio è l’associazione NoWalls, nata due anni fa sull’onda dell’emergenza «Noi operiamo nel Centro di via Corelli in cui soggiornano 500 ragazzi – racconta la presidente Angela Marchisio -. Sappiamo di essere una risorsa incredibile, ma allo steso tempo operiamo in stretta collaborazione con i gestori del centro e senza sovrapporci. In questi contesti, il mio consiglio è proprio quello di operare con intelligenza e lealtà, affiancando i professionisti che ci lavorano e offrendo loro il nostro supporto. Noi principalmente ci occupiamo di alfabetizzazione e, allo stesso tempo vediamo, ascoltiamo e parliamo con loro. L’attività principale dei volontari è rendere questi luoghi migliori».

Diversa invece è la proposta di Refugees Welcome Italia «La nostra attività – spiega Matteo Bassoli – è fondata sul dialogo, forte del principio che chi arriva nel nostro Paese per sfuggire a guerre o dittature cerca un luogo aperto e non chiuso. Non è più possibile pensare all’Italia come una realtà congelata, immobile di fronte ai cambiamenti sociali mondiali. Bisogna aprire lo sguardo e imparare che accogliere l’altro, lo straniero, può soltanto arricchirci. L’afflusso in Italia di giovani provenienti da altre nazioni non può che giovarci e aiutarci a cambiare. Questa visione la coniughiamo tramite la condivisione del “tetto”. Siamo infatti partiti da un interrogativo: perché non accogliere i rifugiati a casa nostra? Siamo convinti che con l’attivazione di legami di comunità possono nascere e svilupparsi dei percorsi reali di inclusione e di convivenza. Non a caso non chiediamo infatti l’uso di un appartamento sfitto, ma l’accoglienza in casa propria». «Questa – prosegue Bassoli – è una terza fase del percorso di accoglienza, quella che si occupa dei richiedenti protezione che escono da sistema di protezione. Un’accoglienza che non è vincolata da tempi tecnici o normativi, ma che tiene conto dell’intervallo necessario per portare queste persone all’autonomia lavorativa e abitativa, dentro uno spazio tutelato. Uno spazio di relazione che può garantire un vero e proprio progetto di vita in Italia. E’ chiaro che questo tipo di aiuto è indirizzato a profughi che dimostrano più capacità di autonomia rispetto ad altri più fragili che devono essere maggiormente supportati. I nostri ospitanti sono molto eterogenei: oltre alle famiglie più tradizionali ci sono single, gruppi di studenti, giovani coppie. Tutto questo è stato possibile grazie alla progettazione di un sito web e a un équipe che esamina i possibili abbinamenti ospite-ospitante. Un lavoro complesso di valutazione sia del migrante in uscita da un centro sia della famiglia ospitante. Noi partiamo dall’idea che un periodo in famiglia faciliti e acceleri le possibilità di una vera e reale integrazione».

© articolo pubblicato su www.ciessevi.org